Si attribuisce all’antica città di Pergamo, l’attuale Bergama situata in Turchia, la prima manifattura organizzata della pergamena. Si tratta di un tipo di supporto scrittorio più resistente rispetto al ben più antico, fragile e deperibile papiro.
Tecnicamente definito come supporto membranaceo la pergamena era ed è, appunto, ricavata dalla membrana, cioè dalla pelle scuoiata e depilata (in un bagno alcalino) di animali di allevamento; in percentuale, si tratta soprattutto di ovini.
La pergamena fu usatissima specialmente nel Medioevo dagli amanuensi per realizzare libri affascinanti e preziosi documenti, anche miniati e parzialmente dorati. Si tratta sempre di pezzi di pergamena unici, manoscritti (scritti a mano), di vario formato, talvolta di incalcolabile valore storico e artistico.
Se osserviamo da vicino le pergamene antiche (basta una lente d’ingrandimento) notiamo che ogni specie animale ha proprie caratteristiche dermiche tipiche e che la specie animale da cui furono ricavate è individuabile in modo semplice, attraverso l’osservazione dei pori e soprattutto dalla loro disposizione, cioè dal raggruppamento dei forellini lasciati dall’espianto dei bulbi piliferi avvenuto durante la prima fase della fabbricazione.
Vari tipi di pergamene
Da una pelle intera di pergamena di pecora (90 x 60 cm ca), piegata in quattro (a croce, nel mezzo) di otteneva il “quaterno”, da cui deriva, a causa dello stesso uso scrittorio, traslato dal vecchio al nuovo tipo di supporto, il nome degli odierni quaderni di carta.
L’animale veniva prescelto e selezionato dal pergamenaio in base alle esigenze legate al lavoro che con quel tipo di membrana si voleva realizzare. Infatti, non tutte le pelli ottenibili dai quadrupedi addomesticati hanno le stesse caratteristiche. Ad es. (è un caso limite) se avessero voluto la pelle per realizzare un tamburo avrebbero scelto l’asino, perché ha una pelle resistentissima. Infatti, un proverbio dice che: “Chi asino nasce, prende le botte anche dopo morto”.
Di solito si aspettava che il quadrupede “crepasse” (scusatemi per la crudezza del termine, ma purtroppo è quello esatto) per motivi legati alla sua anzianità di servizio, cioè si aspettava che fosse almeno un bel po’scorticato, acciaccato, che so, con la cataratta da operare, o che fosse un bel po’ rincitrullito. Insomma doveva essere malaticcio o meglio ancora moribondo… prima di mandarlo al macello.
Di pensione non si parlava proprio! Mica si poteva mandare tutti gli asini “a giro” in pensione, come l’asino che vi descriverò tra poco? Con la vita che si allunga sempre di più…
A proposito. Accadde, tantissimi anni fa, nel circondario del mio paese, che un macellaio di carni equine, chiamato dal proprietario al capezzale del moribondo, interpellato su: “Quanto mi dai?” (per portartelo via) rispose: “None! Quand mi di tu!?” sottintendendo “altrimenti te lo lascio morire lì”. Quindi, voglio dire: non lo si uccideva apposta, l’asino, tanto per fare un tamburo. Infatti, un altro proverbio dice: “L’asino vecchio muore a casa del ciuccio” dove il ciuccio sarebbe il proprietario dell’asino; che non è riuscito a sbarazzarsene prima.
L’asino simboleggia l’ignoranza (dove ignorante è colui che insegna cose sbagliate agli altri), la zotichezza e la caparbietà e, siccome è per natura un buon arrampicatore, è possibile incontrarne anche in posizione di rilievo o addirittura di comando (con comportamenti da cavallo). A proposito l’asino ha il suo estro e mostra il meglio di sé da marzo ad agosto e massime a maggio.
Nel mio libro intitolato: I buoni colori di una volta, accenno ai bestiarii medievali ed alla simbologia che per tradizione si attribuisce a ciascuna specie animale. Ma l’asino, fino agli anni Sessanta del Novecento era anche un elemento caratteristico dei paesi di montagna, infatti, entrava a far parte della quotidianità e del “paesaggio” folcloristico e pittoresco.
Ricordo che, circa sessantacinque anni fa, mentre mi recavo a scuola vestito col grembiule e il fiocco blu (oltremare), con lo scudetto dell’Italia cucito sulla spalla, nelle viuzze del centro storico del mio antico borgo natio, sentivo le massaie cantare dalle finestre aperte mentre svolgevano i lavori domestici. Allora questa era una consuetudine normale perché non c’era ancora la radio in tutte le case.
Nel mio tragitto incontravo spesso i vecchi montanari vestiti con abiti tradizionali di foggia ottocentesca (quelli stessi dei Briganti!): camicia bianca con maniche larghe; gilet e pantaloni neri fino alle ginocchia; calzettoni bianchi di lana pesante (quelli fatti coi “ferri per la calza”, a mano, dalle loro mogli, cioè le cuturnae, lo stesso modello indossato già dagli antichi soldati Romani sopra le caligae) e le caratteristiche chiochie ai piedi: realizzate con una fetta rettangolare di cuoio traforata regolarmente ai bordi (per infilarci le stringhe), ripiegata a punta (a barchetta) sul davanti e fissata ai polpacci da lunghissime fasce o stringhe nere che venivano sapientemente giustapposte ed intrecciate fino al ginocchio. A completare l’abbigliamento maschile invernale c’era un cappello nero a large falde, una cappa di lana nera sulle spalle e l’immancabile, simbiotico asino al seguito, di solito di un elegante colore scuro o del tutto nero, anche lui.
Il poeta Modesto Della Porta dedica all’asino uno dei suoi componimenti migliori, intitolato: Lu testamende de Zi’ Carminucce (Il testamento di Zio Carminuccio), nel quale mette in risalto anche gli aspetti meno conosciuti e le peculiarità psicologiche di questo animale cocciuto, abbastanza intelligente (nonostante la nomea) e opportunista che, per il suo modo di comportarsi, talvolta risulta simpatico o anche divertente. Nel caso di cui sopra, venne nominato dal suo riconoscente padrone unico erede di tutti i beni. «Meglio un ciuccio, quando ti rispetta, piuttosto di una moglie “cervellina”», già fulminata – cioè definita molto peggio – nell’incipit. Tra l’altro a questo asino, diventato improvvisamente ricco e di conseguenza, dopo un po’ viziato, esigente e schizzinoso, toccò di indossare degli occhiali verdi, affinché d’inverno scambiasse la paglia secca… per erba fresca e a quanto pare l’espediente riuscì!
In Abruzzo, fino agli anni 60 del Novecento, dai popolani l’asino veniva chiamato eufemisticamente ed affettuosamente: la “vettura”, perché era il più economico, diffuso e umile mezzo di trasporto. Per questo motivo fu scelto e usato apposta per un famosissimo, singolare ingresso trionfale da uno che, pur meritandolo più di ogni altro, non volle gli fosse attribuito l’onore e il titolo che spettano automaticamente a coloro che salgono a cavallo e che, per ricordo dell’umile servizio ricevuto, lasciò come privilegio a quell’asino e ai suoi discendenti una vistosa croce di pelo più scuro sul garrese.
Groppa di un asino còrso, fotografato a Vasto.
Dal punto di vista percentuale, per fabbricare le pergamene, le capre furono utilizzate molto meno rispetto alle pecore e non furono discriminate in quanto “capre”, ma solo perché il più delle volte hanno pellicce scure o a macchia che potrebbero pregiudicare il risultato della trasparenza e del candore finale se i bulbi piliferi, non correttamente rimossi, dovessero accidentalmente rimanere inclusi nella pergamena. Infatti, il risultato migliore del lavoro del pergamenaio dovrebbe essere di colore bianco latte o leggermente più giallino.
Se volete sapere come si fabbricava la pergamena v. I buoni colori di una volta. Ricettario fotografico per conoscere e fabbricare pigmenti, leganti, vernici e materiali artistici antichi, direttamente dai trattati medievali, Terza edizione riveduta, pp. 38-43). Chi fosse interessato alla simbologia del bestiario medievale potrà vedere ibidem (sullo stesso libro citato prima) a pag. 29.