Divagazioni sul ruolo dell’iconografo e sul significato delle sacre immagini
Durante tutto il Medioevo i pittori, generalmente, lavoravano su tavole di legno di pioppo preparate con un fondo di gesso e colla, oppure su pergamene, con la tecnica pittorica della “tempera all’uovo”. È questa una tecnica conosciuta già dagli antichi Romani e praticata sia nei monasteri che fuori, fino a quando venne gradualmente sostituita dalla “nuova” tecnica di pittura – ad olio – che si affermò lentamente, a partire dalla seconda metà del XV secolo, lungo un periodo di almeno cento anni, fino rimpiazzare quasi completamente quella vecchia.
Quindi, chi non la conosce potrebbe pensare che la pittura a tempera all’uovo sia proprio una cosa di altri tempi, ma non è così, perché artisti virtuosi che la prediligono ci sono ancora oggi e a ben vedere ci sono sempre stati, anche in un passato relativamente recente. Inoltre, vi dirò che a me personalmente “gasa” molto saper dipingere a tempera all’uovo, più o meno come facevano i grandi pittori medievali. È come dire che conosco e so parlare abbastanza bene la stessa lingua di Giotto, di Cimabue e di Duccio (solo per fare qualche nome). Infatti, è una tecnica molto affascinante che all’inizio, a chi non l’ha mai praticata, può sembrare troppo complicata e laboriosa riguardo ai preparativi giacché i pigmenti puri in polvere, separatamente, devono essere preparati singolarmente prima di cominciare a dipingere, cioè devono essere mischiati al legante (il rosso, cioè il tuorlo dell’uovo di gallina) al momento, con una spatolina sulla tavolozza, solo nella piccola quantità (tanto rosso e tanto pigmento + qualche goccia d’acqua) bastante per essere usata nel giro di due o tre ore. A parte questa e l’altra difficoltà dovuta anche alla preparazione iniziale del supporto ligneo (se volete fare esattamente come i grandi del passato dovrete usare tavole di legno “mezzone”, di pioppo massello stagionato, preventivamente ingessate e lisciate. (V. I buoni colori di una volta, pag. 80-84). Vi assicuro (ai Pittori) che poi, “quando vi prende”, è una tecnica bellissima che non lascerete più.
Devo premettere però che tra le altre tecniche pittoriche la Tempera all’uovo è quella che si addice di più a chi non ha fretta. Infatti, lascia molto tempo per pensare o per ascoltare, perché è una pittura “liscia”, cioè priva di “corpo”, semitrasparente, che infine – dopo diversi anni – diventerà dura e “cristallina”, giacché si compone e richiede infinite velature di colore, sovrapposte col pennello piccolo (tondo, di vaio) “scarico”. In pratica bisogna disporre le pennellate l’una affianco all’altra, cominciando dall’alto e procedendo a piccoli tratti verso il basso, “così quando sarai arrivato in fondo, vedrai lo strato precedente già asciutto e potrai continuare senza sosta”. Quelli che frequentano questa tecnica oggi, di solito, sono soprattutto persone specializzate in pittura a soggetto sacro, che operano in silenzio e che generalmente non amano eccessivi clamori (v. Il sito www.iconecristiane.it).
Per quanto riguarda l’evoluzione storica del linguaggio e della messaggistica che si attua e che si è sempre svolta per immagini, dobbiamo tener presente che una volta, quelle che si potevano vedere e ammirare in chiesa, per tanta gente erano le uniche immagini esteticamente gradevoli, disponibili e sempre accessibili. Allora il messaggio, direi il sentimento della salvezza e della speranza cristiana arrivavano al popolino analfabeta attraverso lo sguardo benevolo dei soggetti raffigurati nei “quadri” e specialmente nelle sacre icone. Era sempre un messaggio composto, dignitoso, gentile, rispettoso, ma ciò nonostante, specialmente per chi crede “funzionante” ed efficace. Anche oggi esiste, più che mai, una comunicazione specializzata, prettamente commerciale, che avviene per immagini. Si tratta però di una comunicazione tante volte invadente, se non proprio sfacciata e volgare, che ottiene i suoi scopi tramite l’esposizione su enormi cartelloni stradali, sui mezzi di trasporto (bus urbani) e su tutti i mezzi di comunicazione di massa. Si tratta sempre di rappresentazioni e di messaggi – anche celati – che usano in modo scientifico, cioè “studiato a tavolino”, le immagini per comunicare frasi e concetti sviluppati da specialisti che conoscono i meccanismi profondi della comunicazione sociologica.
Nella Introduzione del libro I buoni colori di una volta, presento l’arte dell’iconografo, cioè di colui che dipinge o scrive (secondo il significato etimologico più aderente) le icone, come la più nobile ed “alta” attività nella scala dei possibili livelli di consapevolezza di un pittore, definendo questa speciale attività come “sacerdotale” in quanto rapporta direttamente l’iconografo con “l’altro mondo” cioè col mondo trascendente. La sua non è certo un’attività facile perché implica conoscenza ed esperienza della tecnica manuale ma soprattutto della preghiera che si compie e si materializza durante la realizzazione dell’icona, questo perché l’icona tradizionale “si fa pregando” ed è una forma di materializzata di preghiera (questo discorso è stato ripreso anche nell’altro libro: Encausto sul legno).
Dunque, come nasce un’icona?
Ci sono su Internet ditte specializzate che vendono tavole di pioppo o di tiglio semilavorate, anche già ingessate, lisciate e pronte per la pittura, ma a chi ha una certa esperienza e – o anche, come nel mio caso, una certa età –, capita spesso di trovare prima la tavola di legno stagionato della forma adatta a quello che sarà poi il soggetto da raffigurare. Sembra che il soggetto “ci venga incontro”, come se, dopo che uno ha trovato “casualmente” il supporto ligneo, il tal o il tal altro gli dicesse: “Qui ci starei proprio bene. Mi vuoi dipingere?”.
Questo è un fatto che definirei normale per chi crede nella Comunione dei Santi. Invece è incredibile per tutti gli altri… scettici, o “sani di mente”, come potrà pensare razionalmente qualcuno.
Nel libro Encausto sul legno, accenno alla figura dell’isografo, cioè dell’iconografo rigoroso che dipinge le sacre icone secondo precise, tradizionali regole iconologiche. Queste vengono trasmesse nei monasteri, da una generazione all’altra, oggi anche da persone esterne consacrate dal vescovo (ciò accade specialmente nelle Chiese Cristiane orientali) a questa mansione o professione molto speciale e particolare.
Circa il contegno che bisogna tenere nei riguardi delle immagini sacre, devo dire che i miei avi trattavano con molto rispetto e deferenza le raffigurazioni (allora solo oleografiche, stampate) di Cristo, della Madonna e dei santi che tenevano sempre attaccate alle pareti di casa e specialmente al capezzale, nella camera da letto. Talvolta queste immagini erano dotate di belle tendine preziosamente ricamate per poter essere, come si conviene, aperte e chiuse all’occorrenza. Infatti, l’icona e più in generale l’immagine a soggetto sacro, è e dovrebbe sempre essere considerata e trattata come una finestra che permette una comunicazione con l’altro mondo. San Padre Pio da Pietrelcina ha confermato, nel suo stile francescano, caratteristico (senza mezzi termini), questa comunicazione e/o visibilità. Infatti, quando era ancora ufficialmente tutto in questo mondo, lui vedeva e sentiva i fedeli oranti, che si accostavano devotamente alle sue fotografie per chiedergli l’intercessione: affinché presentasse al Signore Gesù le loro preghiere. Ciò accadeva mentre i fedeli si trovavano fisicamente in posti lontanissimi da lui e in alcune occasioni, (dopo essere stato espressamente richiesto), ha avuto modo di confermare agli interessati questa sua dote, precisando la data, la circostanza e l’ora dell’accaduto.
A proposito delle proprietà attribuite o attribuibili alle immagini sacre l’ex comandante provinciale dei Vigili del Fuoco – che mi onora della sua amicizia –, durante un incontro conviviale ha raccontato ai commensali questo caso e questa situazione molto particolare, che “casca a pennello” in questa mia rubrica.
A seguito del terremoto che ha colpito L’Aquila uno dei suoi valenti uomini doveva entrare dentro una casa molto lesionata, pericolante, sita a piano terra, per recuperare nel modo più sicuro e rapido possibile oggetti di valore, questo pochi giorni dopo quello della scossa principale, mentre era ancora drammaticamente attivo lo sciame sismico, seguendo le indicazioni del proprietario. «Dopo il corridoio dell’ingresso sali tre gradini, passa sotto l’arco di mattoni, vai avanti per 4-5 metri, gira a destra e lì c’è la camera da letto. Nei cassetti del comò troverai il portafoglio e gli oggetti d’oro».
Dunque, arrivato sul posto indicato così fece e subito dopo notò, attaccato alla parete lesionata, un quadro antico dipinto su tela, che gli parve “bello, abbastanza grande,” raffigurante la Vergine col Bambino e decise lui, al momento e spontaneamente, di prenderlo per portarlo fuori. Si avviò ma mentre era circa a metà strada, si verificò una scossa molto forte che fece crollare all’istante, completamente, tutto l’edificio.
I colleghi e le persone presenti lì fuori vennero prese dal più cupo sconforto perché, considerata l’evidente gravità della situazione, credettero di aver perso lo “sfortunato” pompiere capo-turno. Infatti, circa un minuto dopo il crollo, nel lento, tetro abbassarsi del fitto polverone, constatarono amaramente la gravità del disastro perché videro affiorare dal cumulo delle macerie solo una piccola parte del profilo sommitale dell’arco di mattoni – l’unica struttura della casa rimasta ancora in piedi – ma sotto di esso, all’improvviso, (direi con uno spettacolare colpo di scena), sbucò inaspettatamente ed apparve prodigiosamente davanti agli occhi increduli degli astanti la figura della Vergine col Bambino – più o meno come la vediamo raffigurata nei dipinti del Seicento –, che stavolta però si muoveva nella nebbia, usciva e poggiava sopra una nuvola diradante… di vera polvere! Era stata istintivamente innalzata a protezione come uno scudo, o piuttosto come un portentoso trofeo, dalle due braccia tese del pompiere sottostante. In quella particolarissima ambientazione scenica (come la ricordano i colleghi), dopo un po’ lui apparve suo malgrado (devotamente) inginocchiato, spossato, completamente imbiancato da uno spesso strato di polvere – ma vivo –, in mezzo all’enorme, terribile, lugubre, tombale mucchio delle macerie, mentre ancora innalzava vittoriosamente, l’immagine serena e materna della Vergine col Bambino.
Sarà un caso?
Ringrazio per la collaborazione le allieve iconografe: Francesca Lorusso per la prima icona. Barbara Luchetti ed Elizaveta Mina per le altre due.