Oggi saper fabbricare “da soli”, artigianalmente, le vernici finali da utilizzare per verniciare i propri dipinti costituisce davvero un valore aggiunto notevole, è una “roba da maestri” che pochi Pittori sanno fare.
Luigi Pirandello ha scritto tante belle storie tra cui: La giara, una spassosissima novella ambientata in ambito rurale siciliano, dove descrive, tra l’altro, una materia molto speciale, davvero portentosa:
«[…] C’era giusto zi’ Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. […]».
Secoli prima di Zio Dima i mastri “conciatori di brocche” e non solo, avevano ereditato tradizionalmente, talvolta di padre in figlio, le ricette e la tecnica del loro mestiere descritta già in antico da famosi trattatisti (v. Encausto sul legno. Come realizzare un dipinto ad encausto sul legno seguendo gli indizi delle fonti classiche: proposte per la ricostruzione filologica della tecnica antica, pag. 217) e riproposte anche da Raffaello Borghini (1537 – 1588 ca.) che descrive una ricetta tenacissima, ottima per incollare pietre, marmi, terrecotte, ceramiche ecc. dove l’ingrediente principale, quello “decisivo”, è sempre lo stesso: la resina mastice. Questa resina naturale veniva usata dai “conciatori / restauratori” dal tempo di Plinio il Vecchio al tempo di Pirandello e fino a quaranta anni fa, quando furono messe in commercio le prime resine sintetiche. Il “mastico da denti”, com’era chiamato come da Borghini, “se vorrete usarlo”, [prima, per ammollarlo] “quello vi porrete in bocca masticando alquanto […]”.
Che schifo! Direte voi, ma, a ben vedere, ¬– anche se subito non ci crederete – si tratta proprio della stessa sostanza che costituisce la parte principale della comunissima chewing gum o gomma da masticare (e già qui la cosa fa meno schifo, meno male).
La resina, in gocce, fuoriesce lentamente dalla corteccia sapientemente incisa. Le gocce chiamate col nome commerciale di “lacrime” hanno un aspetto cristallino. Esposte all’aria solidificano lentamente e poi vengono raccolte. La resina mastice è ottenuta da un arbusto/alberello che nel Centro-Sud Italia è utilizzato anche dai giardinieri per formare delle belle siepi. È classificato come Pistacia lentiscus ed è anche un tipico componente vegetale della macchia mediterranea.
Anni fa entrai in una rinomata mesticheria fiorentina (le mesticherie a Firenze e dintorni sono i negozi dove si vendono colori e tanti altri articoli già approntati per gli artisti) e prima di comprare della Mastice ebbi l’accortezza di mettere in atto la prova (direi giustamente… come ha scritto il Borghini!) mettendomi in bocca una lacrima di Mastice di Chios.
I proprietari mi guardarono stupiti avendo immediatamente sgranato gli occhi. Senza dirlo, probabilmente pensarono: «I’ Prof. Diodato l’è impazzito!», mentre io saggiavo tranquillamente la genuinità della resina vegetale… e ne avevo buon diritto perché è una merce alquanto costosa che è anche facilmente falsificabile durante le fasi della commercializzazione, sia all’ingrosso che al dettaglio. Infatti, una molto più economica resina acrilica, ad es. il Paraloid, con la quale talvolta viene adulterata, non ha proprio precisamente lo stesso gusto aromatico… del pistacchio, che invece è un dato caratteristico tipico della resina mastice. Mi raccomando! Non fate questa prova se non sapete in quali condizioni igieniche sia stata maneggiata, conservata, imbustata o pesata quella partita di resina perché, ¬– specialmente nelle mesticherie specializzate in materiali pittorici antichi ¬– è possibile che sostanze o colori tossicissimi siano venuti accidentalmente a contatto con essa (basta un attimo per intossicarsi… definitivamente), anche sulla stessa bilancia (v. I buoni colori di una volta, pag. 403. Sul mio libro troverete anche le note tossicologiche che riguardano la classifica della pericolosità dei colori e dei coloranti utilizzati una volta).
Il lentisco è una pianta conosciuta e apprezzata fin dall’antichità. È stata chiamata in modi diversi a seconda delle località (specialmente in Sardegna) e dell’utilizzo che si può fare della resina e dei ramoscelli. A proposito: “dentisco” potrebbe essere, secondo i Proff. Camarda e Valsecchi dell’Università di Sassari, il termine da cui sarebbe derivato il nome lentisco (v. L’ancona dei Cappuccini di Guardiagrele e il suo restauro. Raccolta di notizie storiche, tecniche e metodologiche, pag. 66).
Dal punto di vista botanico la pianta del Lentisco è “cugina” del Terebinto (Pistacia terebinthus) di biblica, tragica memoria (v. nel secondo Libro di Samuele come finisce la storia di Assalonne, figlio ribelle di re Davide).
Per quello che riguarda la piantagione e la coltivazione del Lentisco è noto che l’alberello produce la resina più abbondantemente (si ottiene incidendo la corteccia dei trochi e specialmente delle radici affioranti) se si trova piantato in climi luminosi, caldi e temperati. Per questo motivo le isole dell’Arcipelago greco, tra le quali sta Chios, si trovano in una posizione ottimale.
La lacrima essudata di mastice, che poi viene lasciata seccare lentamente all’aria si conserva per moltissimi anni senza problemi. Come dicevo il suo uso risale a tempi molto antichi, non solo per fabbricare delle colle tenacissime ma soprattutto per preparare un’ottima vernice finale per i dipinti, specialmente per pitture a tempera e ad olio, mescolata ad altri ingredienti (v. I buoni colori di una volta, pag. 97; 109) perché da sola risulterebbe troppo tenace, il che potrebbe addirittura far “arricciare” strappando in fase di asciugatura gli strati pittorici qualora vi venisse sconsideratamente applicata pura, “a spessore” e senza essere stata preventivamente mescolata ad altre sostanze più elastiche.
Oggi la verniciatura finale del quadro dalla maggioranza dei pittori è sottovalutata ed è ritenuta una operazione “facoltativa” o comunque di poco conto, invece essa è molto importante per chi vuole assicurarsi una lunga durata nel tempo del proprio dipinto. Mentre, in passato, per i Pittori era una cosa necessaria, normale e doverosa, che si faceva sempre. Infatti, il termine francese vernissage, alla lettera: “verniciatura”, che oggi in senso traslato ha preso il significato di: “inaugurazione”, deriva, appunto, dall’operazione di finitura che il pittore eseguiva, teatralmente, davanti agli invitati intervenuti in Galleria, appunto alla inaugurazione della sua mostra. Inoltre, oggi saper fabbricare “in proprio” le vernici finali da utilizzare per i propri dipinti costituisce davvero “un valore aggiunto” (direi che è una “roba da maestri”) alla perizia dell’artista che pochissimi Pittori conoscono e padroneggiano perfettamente. Infatti, la maggior parte miei ex colleghi e non, che negli anni scorsi ho avuto modo di frequentare in Accademia (perché sono stato invitato nei loro studi/laboratori), per motivi di praticità e di rapidità si accontenta di prodotti industriali già pronti e disponibili in commercio, anche se contengono parti più o meno consistenti ¬– e dichiarate nell’etichetta ¬– di resine sintetiche, acriliche soprattutto.
I Restauratori cresciuti a bottega riconoscono “a naso” la resina mastice dall’odore caratteristico, quando è stata utilizzata come ingrediente nella vernice applicata sopra un dipinto antico. Infatti, l’odore aromatico che emana somiglia un po’ a quello dell’incenso di sagrestia (avete presente quando il diacono sparge “il fumo” con l’incensiere durante la messa solenne?) e persiste anche dopo secoli dalla sua applicazione. L’odore della vernice a base di mastice è ancor più marcato e percepibile quando le vernici antiche, fortemente ossidate e ingiallite dal tempo, vengono rimosse con “pappine” a base di solventi in fase di pulitura.
Dal libro I buoni colori di una volta è possibile imparare a fabbricare da soli le vernici finali per i quadri, proprio come si faceva una volta.
Foto di un lentisco scattata nell’isola greca di Chios. ©Chiara Tiralongo.