Divagazioni sulla scoperta dell’antica tecnica pittorica ad encausto sul muro
All’età di 23 anni ero impegnato nella mia seconda esperienza lavorativa estiva.
Mentre gli amici se ne stavano tutto il giorno al mare, io il sole lo prendevo in tenuta da muratore, precisamente da manovale, indossando solo pantaloncini corti, attillati secondo la moda degli anni ’70; ma la sera, con camicia elegante e pantaloni lunghi sembravo uno “figo”, “palestrato” – con qualche soldo in più rispetto agli altri – che era stato tutto il giorno al mare.
Fui assunto come collaboratore temporaneo da un bravo mastro muratore, titolare della sua ditta edile, che aveva lavorato nella Svizzera tedesca e col quale mio padre aveva pattuito la realizzazione degli intonaci sulle pareti della nostra nuova casa.
Secondo i latinisti l’etimologia del termine mastro deriva da due parole: magis (più) e ter (tre), insomma, vuol dire che quel tale, che può fregiarsi di tanto titolo, è uno che di cose ne sa o ne sa fare molte e bene, uno che vale “più di tre” personaggi normali messi insieme.
A ciascun mastro si attribuisce e si accresce la fama in base alla narrazione dei propri fatti – talvolta mirabolanti, cioè con notazioni esagerate, anche di carattere strettamente personale – che riguardano doti di inventiva o di particolari abilità dimostrate nel risolvere situazioni molto difficili o problemi che ai meno abili potrebbero essere sembrati irrisolvibili. Infatti, a volte in Abruzzo capita ancora oggi di sentire la frase: “Hæc ce vo’ lu Mastre!” ovvero qui la situazione (o l’impresa) è molto difficile, occorrono le capacità specialistiche di un Mastro e queste abilità, negli anni, si passano di solito agli allievi per frequentazione diretta, proprio come accadeva già nella bottega medievale. Così, frequentando Mastro Peppe, io ho imparato cose che, evidentemente, anche lui aveva appreso a suo tempo a cominciare da quando era un semplice manovale. Quindi, in qualità di ex lavoratore edile (sebbene io lo sia stato solo per un breve periodo di tempo) in questo particolare settore, posso vantarmi di appartenere ad una Scuola teutonica, dove ho appreso nozioni utilissime ai fini pratici, anche con precisi e puntigliosi influssi elvetici (v. i dettagli nel dosaggio dei materiali “segreti”).
La prima cosa che ho capito a mie spese è che, anche quando è soddisfatto, un mastro non deve mai sembrare contento del lavoro del suo dipendente: a prescindere dall’impegno da questi profuso. Insomma il mastro deve tenerlo sempre in soggezione altrimenti lui potrebbe rallentare l’alacrità, rilassarsi troppo, abbassando il rendimento e di conseguenza il guadagno della ditta.
Come ho fatto a capirlo? Ecco qua.
A fine giornata colui che nel gruppo ha la qualifica più bassa nella scala gerarchica dei lavoratori edili (il manovale apprendista, appunto) deve, di norma, pulire bene tutti gli attrezzi utilizzati dagli altri colleghi in modo che il giorno dopo siano tutti “belli” e in ordine. Dunque, io lavavo le caldarelle (i secchi), le pale, le cazzuole, i fratazzi (v. Encausto sul muro. Come realizzare praticamente un dipinto ad encausto su laterizio seguendo le ricette delle fonti classiche, pag. 54) e gli altri attrezzi bagnandoli, a mollo, prima nella carriola – che in questo caso fungeva anche da vasca – e poi ripassandoli, uno ad uno, col getto del tubo dell’acqua corrente, dopo averli strofinati con la spugnetta. Ma lui non era mai soddisfatto! Allora – incaponito – pensai di utilizzare anche la paglietta d’acciaio (la portai apposta da casa) strofinandola fino a rendere splendenti le parti metalliche degli attrezzi. Infine, alla mia domanda “Va bene così?” lui rispose con volto inespressivo e col solito, inquietante (e un tantino indisponente) silenzio. Dunque… un mastro non dev’essere MAI soddisfatto del suo dipendente; un po’ come accadeva in Egitto ai tempi di Mosè agli schiavi fabbricanti di mattoni. Inoltre, ogni piccola o minima occasione è utilizzabile dal mastro, a suo piacimento, per richiamare e il più delle volte per rampognare aspramente (in dialetto dicesi cazziare) il dipendente, naturalmente senza che a questi venga concessa una benché minima possibilità di rispondere… se non a rischio di licenziamento.
Brunitura parziale dei colori nel rifacimento della tecnica antica dell’ encausto sul muro.
A parte questa ed altre piccole note sgradevoli, la mia esperienza nell’Edilizia è stata nel complesso molto positiva (anche per il mio armonico sviluppo muscolare).
La tecnica più importante che ho imparato è stata quella di saper “tirare bene” gli intonaci col fratazzo (v. Encausto sul muro. Come realizzare praticamente un dipinto ad encausto su laterizio seguendo le ricette delle fonti classiche, foto n. 13 e 14), cioè di saper applicare arricci e intonachini rendendoli, infine, perfettamente lisci. Allora, da giovane, non immaginavo assolutamente di poter diventare un giorno il professore della cattedra di Restauro dei dipinti più antica del mondo (l’Accademia di Belle Arti di Firenze origina o deriva dall’antica Compagnia di San Luca o dei Pittori, risalente al 1339) ma, siccome nulla accade a caso, col senno di poi ho visto che questa esperienza di lavoro giovanile ha facilitato molto il mio studio successivo e l’apprendimento di tutte le antiche tecniche pittoriche tradizionali praticabili sul supporto murale. Infatti, la scoperta dell’antico metodo dell’encausto parietale romano mi si è provvidenzialmente chiarita quando, molti anni dopo (2001), studiavo i dieci libri del De Architectura di Vitruvio. Lui, intorno all’anno 20 avanti Cristo, descrive e dice di applicare sul muro, in successione, mescolati con la calce, tre strati di arena (sabbia di fiume) e tre strati di marmo (in polvere. V. Encausto sul muro. Come realizzare praticamente un dipinto ad encausto su laterizio seguendo le ricette delle fonti classiche, pag. 25) mentre Mastro Peppe, – che non doveva dipingere ad affresco i muri –, per semplicità (quello che conta per i muratori è la buona qualità dello strato più superficiale, da raggiungere nel più breve tempo possibile) ne applicava solo due: sotto, una sorta di arriccio ruvido di sabbia e cemento Portland applicato “a sgrizzo” cioè scagliato sul muro con decisione, ma senza esagerare, con la cazzuola, sul quale, il giorno dopo, stendeva col fratazzo una finitura perfettamente liscia di malta a base di calce spenta e polvere di marmo.
Oltre al trasporto a mano dei pesi, su e giù dalle impalcature, la preparazione delle malte era ed è, per tutti i manovali, il compito più importante, quello principale e decisivo per l’avanzamento nella carriera. Siccome per farla bene ci vuole tempo, io preparavo la malta in anticipo prevedendo la richiesta perentoria che sarebbe arrivata all’ora prestabilita. La mescolavo a lungo, pazientemente, con cura, con la pala nella carriola. Aggiungevo, senza esagerare, solo il quantitativo d’acqua necessaria ad ottenere la giusta morbidezza e consistenza della malta evitando accuratamente la formazione dei grumi. Inoltre dovevo anche sapermi regolare sul quantitativo complessivo necessario e sufficiente da approntare, azzeccando esattamente solo quello che doveva essere utilizzato completamente su quella data superficie in quella giornata di lavoro, senza far mancare mai agli altri lavoratori il materiale occorrente per la stesura ma soprattutto senza farlo avanzare e quindi sprecare a fine giornata.
Una volta, accadde che, dovendo io rimediare rapidamente – senza essere visto dal Mastro – a un “incidente”: dovevo eliminare una macchia di cemento grigio finita sull’intonaco candido a base di polvere di marmo, mi soffermai più a lungo, dopo averla lavata con la spugna bagnata e strizzata, premendo, lisciando e sfregando a secco, solo col frattazzino d’acciaio, sopra una piccola zona di intonaco candido quasi asciutto. Fu lì che, a seguito della mia lieve ma prolungata pressione e sollecitazione, prodigiosamente l’intonaco bianco si lucidò “a specchio” assumendo l’aspetto di una lastra di vero marmo.
Ripassando poi con la spugna umida riuscii a mimetizzare perfettamente la zona interessata facendola tornare opaca come l’area circostante.
Molti anni dopo associai questa mia esperienza giovanile al testo vitruviano (precisamente al termine della fase da Vitruvio chiamata trullissatio). Avevo capito finalmente ed esattamente come facevano i maestri decoratori e pittori antichi, ad es. di Ercolano e di Pompei, ad ottenere i loro splendidi e resistentissimi intonaci murali perfettamente lisci, che venivano subito dopo dipinti e lucidati ad encausto. Inoltre, ulteriori anni dopo, durante il lo studio delle fonti letterarie classiche, ho scoperto che il verbo greco enkaio, da cui deriva la parola encausto, può essere tradotto correttamente (perché c’è sul vocabolario!) oltre che con cuocio, brucio, scaldo, riscaldo anche con bollo e con sfrego, operazione “giusta” nel caso specifico quest’ultima perché in pratica produce il lucido e in teoria produce il calore dell’attrito.
Colori classici disposti sopra un mattone intonacato e lucidati solo a metà.
Ho pubblicato per la prima volta questa notizia relativa alla soluzione del problema del rifacimento dell’encausto antico nel 2010 (v. la foto n. 25 a pag. 65 sulla prima edizione del libro: I buoni colori di una volta. Ricettario fotografico per conoscere e fabbricare pigmenti, leganti, vernici e materiali artistici antichi direttamente dai trattati medievali) e successivamente nel 2014 v. Encausto sul muro. Come realizzare praticamente un dipinto ad encausto su laterizio seguendo le ricette delle fonti classiche, oggi disponibile in formato cartaceo nella Seconda edizione (per approfondire v. ibidem pag. 54 e 55) e come e-book nella traduzione in inglese Encaustic Wall Painting.
Dimenticavo.
Talvolta, all’improvviso, “il Mastro” mi ordinava perentoriamente: «Sergio fischia!». Ciò accadeva ogni volta che di sotto, sulla strada, passava una bella ragazza (formosa). Questo comportamento faceva parte della sua antica educazione professionale “tradizionale” (che gli Inglesi direbbero all inclusive) giacché è risaputo che, da che mondo è mondo, i muratori arrampicati come gli stambecchi, non sulle cime dei monti ma sulle impalcature, sono deputati all’apprezzamento sonoro di eventuali, procaci, mammiferi al passo.
Io mi sono sempre rifiutato: «No. Nì vùje fischià». Primo perché, proprio dovendo, preferivo (al limite) fischiare non alle donne ma alle greggi ingombranti su strada quando occasionalmente pedalavo in montagna. Secondo perché talvolta a breve distanza c’era il padre della ragazza che avrebbe potuto annotare il nome del fischiante (io!) e fraintendere il fischio oltre che come un “normale apprezzamento” dovuto alla evidente venustà della fanciulla, anche o soprattutto come un sottinteso attentato alla castità di sua figlia. Quel fischio sarebbe potuto diventare irrevocabilmente una richiesta ufficiale di matrimonio.