All’età di circa otto anni ebbi la fortuna di conoscere personalmente la Fortuna e l’efficacia del suo più potente e rappresentativo talismano.
Mentre i miei compagni si attardavano ancora a giocare sul campetto di calcio sterrato, polveroso e sconnesso che un tempo era stato un bel prato di trifoglio nano, io me ne stavo da parte, al bordo, sudato a riposare e fu lì che casualmente, trovai un quadrifoglio.
«Guagliù guardete. So truvate nu quadrifoije!» gridai e trionfante corsi velocemente verso di loro col prezioso trofeo in mano, ma arrivato vicino, inciampai e caddi rovinosamente procurandomi contusioni, sbucciature alle ginocchia, graffi ai gomiti e alla mano sinistra mentre la mano destra, che nonostante tutto era rimasta chiusa, impugnava ancora saldamente un quadrifoglio… acciaccato, ma incontestabile.
In seguito, questa esperienza, che fu una lezione indimenticabile (niente viene a caso), mi ha aiutato molto ad affrontare serenamente e liberamente diversi incontri, tra cui quelli con importuni venditori di spampanate rose rosse, a loro dire “portafortuna” (“Che fai? Non la compri? Gli altri clienti del ristorante penseranno che sei un micragnoso e tua moglie che non le vuoi più bene…”); venditori di oggetti seriali stampati a forma di tartaruga (Dico io: se questa portasse veramente fortuna certamente non me la venderesti!) o di cordicelle variopinte e finanche di una inquietante, abbronzata e panciuta megera, che volendo – bontà sua – togliermi il malocchio ed evitarmi così immani sciagure, mi proponeva di comprare – ad un prezzo proporzionato (secondo la sua autorevole stima) alla grandezza del maleficio da allontanare – un formidabile oggetto portafortuna, cioè un pezzetto di plastica rossa spacciabile, secondo lei, per corallo.
Il concetto, l’idea di quella che sarebbe la Fortuna è molto antico, è un concetto laico, precisamente e tipicamente pagano (v. ad es. il culto riservato alla omonima, dea bendata nell’antica Roma), che oggi più che mai è molto diffuso ed è sempre tacitamente condiviso in tutti i livelli sociali, anche da persone colte, ragionevoli e raziocinanti, che però stentano o si vergognano ad ammetterlo apertamente e tantomeno pubblicamente, perché credere alla fortuna comporta essere anche automaticamente e ufficialmente superstiziosi. Ciò nonostante la Fortuna sarebbe talvolta propiziabile o propiziata, cioè favorita e richiesta, con indumenti rossi, rituali (anche buffi) e/o amuleti indossati dal richiedente, amuleti che poi creano dipendenza e diventano i “padroni” della persona che li indossa (cioè non si potranno più abbandonare). Quindi la dea Fortuna è creduta fermamente, come il suo temutissimo contrario: la micidiale Sfiga, che per la gente comune è la cosa peggiore che possa capitare. Questo pensiero è invalso e condiviso dappertutto da (quasi) tutti, in tutto il mondo, perché, – dicono – al contrario della rara Fortuna, la Sfiga abbonderebbe in ogni dove. Infatti, asseriscono che: «Se la Fortuna è bendata, la Sfiga ci vede benissimo!».
“Fortunatamente” quello che accade nella vita non è poi così terribile e minaccioso per chi è libero. Infatti, che: «la Verità vi farà liberi», l’ha detto uno che si è qualificato anche come “Luce della Vita” e come luce degli uomini. Specialmente degli uomini liberi – aggiungo io –, quelli che cercano la Verità (v. I buoni colori di una volta, pag. 417n.), quelli che, di conseguenza, hanno il discernimento sulla loro storia e talvolta anche sulla storia degli altri.
Secondo il poeta Modesto Della Porta (1885-1938) la sua Fortuna personale – compresa, in senso lato, nel concetto di destino – finì mangiata, insieme alla pappagallina ammaestrata che era stata incaricata del sorteggio, a comando, dal suo padrone. Infatti, la trama narra di un ambulante attrezzato di pianino, cioè di un congegno musicale portatile e di apposita gabbietta, che si faceva pagare due soldi per far estrarre dalla pappagallina (Rosinella) un cartellino col vaticinio corrispondente al “destino” del cliente di turno (Modesto) riassunto da una scritta sibillina. Ma, quando uscì fuori dalla gabbietta per adempiere al suo grazioso compito di estrattore di destini il volatile venne sorpreso dal gatto di Zio Cassiodoro che, con un balzo fulmineo, lo afferrò al collo e fuggì via “come il vento” sgattaiolando tra la gente e infilandosi, infine, con la preda sotto un caposcala, (probabile metafora, il caposcala, di una agognata ascesa sociale che in vita il poeta non vide realizzata), mentre Rosinella tratteneva ancora nel becco il cartellino appena estratto che finì… mangiato anch’esso.
A tal proposito non sapremo mai – perché la poesia Lu destine non lo dice –, se si trattasse di un gatto nero… che dai più è ritenuto essere un animale porta-sfiga, anzi, il porta-sfiga per eccellenza! Tanto che, anni fa, a me è capitato di vedere, dal balcone di casa mia, una persona in macchina, tornare indietro con rapida “inversione a U”, solo perché poco prima il tranquillissimo gatto nero del mio vicino aveva deciso di attraversare la strada.
Con l’occasione (e quando mi ricapita un’occasione simile?) mi permetto di augurare tanta sfiga a coloro che oseranno ancora fotocopiare – specialmente a Firenze, nei dintorni dell’Accademia – per rivenderli in modo premeditato e organizzato (ben oltre il 15% concesso da una legge che infatti propende verso il reato e favorisce i fraudolenti), del tutto illegale ed arbitrario i miei sudatissimi libri. Inoltre, agli incauti compratori delle fotocopie di cui sopra (ditemi, come si fa a capirci qualcosa, cioè a studiare ad es. l’abecedario: I buoni colori di una volta. Ricettario fotografico per conoscere e fabbricare pigmenti… su fotocopie in bianco e nero?) comunico che utilizzarle per preparare il mio esame di Restauro dei dipinti su tela e su tavola è molto pericoloso perché recenti studi statistici in mio possesso dimostrano che ciò porta ipso facto al tipo peggiore di sfiga: alla Sfiga nera!